Da bambino giocavo agli indiani e ai cow-boy. Il gioco consisteva nel far scontrare i soldatini di plastica l'uno contro l'altro manovrandoli con le mani, un po' come fanno i burattinai con le marionette. Per convenzione, i buoni erano i bianchi, i visi pallidi, e i cattivi erano i pellerossa, gli indiani, ma io facevo vincere sempre gli indiani: i loro copricapo piumati mi piacevano molto di più delle giubbe blu dei soldati. Le loro armi, l'arco e le frecce, molto più delle pistole, dei fucili e dei cannoni. Il tepee, la tipica tenda indiana, era per me molto più accogliente del Forte. Il Totem, con tutti quegli animali scolpiti e dipinti l'uno sull'altro in un tronco d'albero, per i miei occhi, era molto più affascinante del Crocifisso. L'affusolata e silenziosa canoa mi sembrava più elegante della grande nave. Il cavallo pezzato mi appariva più libero e nobile del cavallo di ferro, così gli indiani chiamavano il treno.
Da ragazzo poi, a scuola, mi hanno insegnato la storia di Cristoforo Colombo e della scoperta dell'America: mi hanno spiegato che i pellerossa furono sterminati perché si opposero all'avanzata della Civiltà e della Cultura Occidentale, che l'etnocidio del Popolo degli Uomini, così gli indiani chiamavano sé stessi, fu inevitabile poiché essi si rifiutarono di integrarsi e di omologarsi ai modelli culturali dell'Uomo Bianco. Cioè non volevano vivere, parlare, pregare, ballare, amare, mangiare, abitare, lavorare, pensare come noi bianchi. Il genocidio fu quindi indispensabile, mi insegnarono, perché gli indiani intralciavano l'avanzata del Progresso. Ma, nonostante tutte queste belle parole, quando andavo al cinema a vedere i film western, io istintivamente continuavo a parteggiare per gli indiani e a sperare nel ritorno del Grande Spirito e del bufalo nelle grandi praterie.
[justify]Da uomo ho capito finalmente perché in gioventù non mi piacevano i Visi Pallidi e le Giubbe Blu quando ho scoperto che io sono un indiano.
Ho capito che per sopravvivere nel Mondo dei Visi Pallidi dovevo cercare nella mia mente una Riserva indiana dove trovare rifugio, un luogo dove poter incontrare altri indiani come me, per vivere come piace a noi, secondo le nostre usanze, per poter parlare, danzare e fumare insieme il calumet intorno al fuoco. Ho capito che per salvare la mia anima e il mio spirito dovevo rifiutarmi di crescere, di diventare grande, adulto, serio e civile. Dovevo rimanere selvaggio, bambino e continuare a giocare. Il gioco, l'arte, la creatività, la fantasia, sono l'arco e le frecce per poter riuscire ancora a sognare e a far sognare, a desiderare mondi e modi diversi di essere, di vivere, di esistere.
E così, solo ora che tutto questo mi è chiaro nella mente, dopo tanti anni, ho voluto raccontare per immagini quel gioco.
Miki Carone 1975
- Testo dell'autore pubblicato nel libro fotografico "Il gioco degli indiani ", edizioni Zelig ,1977