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TRA VENEZIA E ISTANBUL . Miki Carone, 1993

Autointervista rilasciata dall’autore durante un viaggio sull’Orient-Express tra Venezia e Istanbul


- “Tra Ravenna e Bisanzio”: Perché hai dato questo titolo alla mostra?
- L’antica Abbazia di San Vito, dove vivo e lavoro da otto anni, sorge sul mare a metà della storica rotta, un tempo percorsa dalle navi dell’Impero Romano, della Serenissima Repubblica di Venezia e dell’Impero Ottomano, tra Ravenna e Bisanzio. Le due antiche capitali d’Occidente e d’Oriente dell’arte musiva mi danno la longitudine e la latitudine per fare questi mosaici, le coordinate geografiche e culturali in cui essi nascono e crescono.

- Com’è nata l’idea di fare dei mosaici?
- E’ stato circa due anni fa…. Stavo guardando la televisione da molto vicino. Vedevo tutto quel brulichio, quel formicolio di puntini luminosi di diversi colori: i pixel. Quelle piccole pennellate elettroniche che si aggregavano formando delle figure composte da tanti frammenti di colore accostati tra loro mi ricordarono altre immagini che avevo visto tanti anni prima a Ravenna, ad Istanbul, a Otranto, ma realizzate con una tecnica molto più antica: il mosaico. Le tessere del mosaico sono le antenate dei pixel che stavo guardando sullo schermo del televisore.

- Allora perché non hai usato il video, come ora fanno tanti altri artisti? Non ti sembra una cosa anacronistica fare dei mosaici nel XXI° secolo?
- L’Arte non è come la Moda: lavora sui tempi lunghi, non su quelli brevi.
Credo che il mosaico sia una tecnica antichissima ma nello stesso tempo modernissima. Mi piace andare all’origine delle cose, scoprirne le radici, la provenienza. Quando sono arrivato la prima volta a New York è ho visto quel bellissimo sky-line dei grattacieli non ho potuto fare a meno di pensare alla silhouette delle torri di San Gimignano viste al tramonto. Io stesso mi reputo un uomo antico, molto antico, mi sento come un ulivo secolare della Puglia, con le mie radici: discendente dei greci, dei bizantini, dei turchi, degli arabi, degli svevi e di tutti gli altri che sono passati da queste parti. Bisogna essere come Giano-bifronte: guardare avanti e, contemporaneamente, indietro. Invece c’è qualcuno che vorrebbe ingessarci il collo e la testa e paralizzarci gli occhi per farci guardare solo in una direzione, solo in avanti, verso Occidente, verso il Futuro, o solo indietro, verso Oriente, verso il Passato. Ma così il nostro sguardo viene bloccato, immiserito, appiattito, perde la mobilità di ruotare a 360°, tra Oriente e Occidente, tra Passato e Futuro.

- Ma così tu neghi la modernità, il progresso, la tecnologia, la velocità.
- Penso che la forma del tempo sia circolare: un eterno ritorno di giorno/notte, sole/luna, estate/inverno, vita/morte. La forma geometrica che descrive meglio la forma del tempo, per me, è quella disegnata sul guscio delle conchiglie di mare: la spirale, non la linea retta che corre veloce e infinita in avanti in cui credevano i modernisti e i futuristi. Oggi, i loro nipotini rifanno solo una noiosa e stanca Accademia dell’Avanguardia. Uno dei motivi per cui ho scelto di fare dei mosaici è proprio la lentezza tecnica che occorre per la sua esecuzione. Bisogna assolutamente recuperare il piacere della lentezza. La velocità non ci ha più permesso di vedere e di gustare tante cose; non ci fa vedere di più, ci fa solo vedere peggio, come quando si corre in auto. Il lavoro dell’artista consiste proprio nel cercare di vedere e far vedere meglio: è un lavoro molto lento che si fa con le mani e con la testa: per metà è un lavoro manuale e per l’altra metà è un lavoro intellettuale; alcuni di noi lo impoveriscono eliminando una di queste due componenti e trasformandosi così in artigiani, se si sono tagliati la testa, o in filosofi, se si sono tagliati le mani. Io cerco di realizzare delle opere, dei manufatti che esprimano un pensiero.

- E allora, guardiamo più attentamente queste opere. Perché nei tuoi mosaici hai inserito degli oggetti?
- Non so dirti bene perché lo faccio. Posso dirti solo che sento sempre il bisogno di inserire, all’interno del mosaico, piccoli oggetti d’affezione, objet-trouvè e ready-made, oggetti pop, (nel senso di popolari), souvenir di viaggi in paesi lontani che mi evocano ricordi, memorie e che diventano così il punto di partenza, il centro attorno al quale nasce e cresce il mosaico. Mi piace anche il dialogo e il contrasto che si crea tra l’oggetto intero, unitario e la frammentazione in tessere del mosaico.

- Invece come tematica direi che c’è molto orientalismo, molta mediterraneità.
- Tanti anni fa, arrivato al Corno d’Oro, quando ho attraversato il Galata Bridge, il ponte sul Bosforo ad Istanbul, ho visto un cartello stradale con due frecce orientate in direzione opposta: su una c’è scritto: Europa, sull’altra: Asia. Ripensandoci ho capito che tutto quello che cerco di dire e di fare è inscritto simbolicamente in quel punto preciso, l’unico al mondo che unisce con un ponte sul mare l’Oriente con l’Occidente. Per me quello è l’Ombelico del Mondo. Con questo voglio dire che non mi interessa l’Orientalismo novecentesco come mito del buon selvaggio da porre a contrasto con l’Occidente civilizzato. Anzi, mi interessa l’esatto contrario: nei miei mosaici, cerco di realizzare una sintesi sincretista tra mondi e civiltà diverse dove possano convivere in armonia (come nello Yin e Yang del Tao) l’Antico con il Moderno, l’Occidente e l’Islam, la luce solare mediterranea con gli azzurri orientali e lunari de Le Mille e una notte. (Questa poi è sempre stata storicamente la funzione del Mediterraneo: scambio, incontro, curiosità, ibridazione e meticciamento tra popoli e culture diverse).

- Vedo anche che c’è molta architettura, molta costruzione in questi mosaici.
- Si, c’è molta geometria in questi mosaici: sento l’esigenza di disegnare forme precise, ordinate, primarie, assolute e immagini nitide e pulite, odio i colori sporchi e la sciatteria formale, amo la simmetria rinascimentale, i rispecchiamenti, i riflessi che creano un doppio uguale e contrario, come gli specchi d’acqua. Il mosaico poi di per sé è costruzione: le tessere sono come dei mattoni con cui devi costruire un’immagine, e quindi è architettura; poi è anche scultura perché lavori con la materia da modellare, il vetro o la pietra; e poi è anche pittura perché lavori con tessere di colore. Mi piace proprio perché ha in sé tutte queste cose insieme: è una tecnica complessa, completa e armoniosa, e poi mi da un senso di sicurezza, di durata nel tempo, non è effimera.

- Ma non ti sembra che questi mosaici siano troppo decorativi e formali? Che siano troppo “belli”?
- Assolutamente si. Ma non trovo che questo sia negativo. Credo che oggi il compito dell’arte sia di produrre bellezza, il lavoro dell’artista per me è quello di creare e vendere sogni. E se mi guardo attorno mi sembra che ce ne sia un grande bisogno! Oggi, dopo il trionfo planetario dell’Orrore, le uniche immagini veramente provocatorie possano essere solo quelle che evocano la bellezza. La bellezza oggi è assolutamente scandalosa! (Naturalmente, intendiamoci, quando parlo di bellezza penso a Matisse, alle Amalassunta di Licini, ai Monochromes blu di Yves Klein, ai quadri blu di De Dominicis, al Mare di Pascali, non ad altro).

- Già, a proposito: perché usi solo il colore blu?
- Mi fanno spesso questa domanda, ma in verità io non me lo sono mai chiesto: ci vorrebbe uno psicanalista. Loro hanno sempre una spiegazione per tutto. Io non ti so rispondere. Mi sembra naturale dipingere dei quadri blu, non saprei e non potrei farli diversamente. Forse è perché dalle nostre parti, sul mare, quando c’è maestrale o tramontana, vi è un momento magico del giorno, verso l’imbrunire, dopo il tramonto, ma prima che sia notte, in cui il cielo si tinge di un particolare intenso blu-azzurro fantastico che io adoro: evoca mistero, nostalgia, serenità. Ecco, quello è il mio colore, il Blu Carone.

- Da più parti ti accusano di essere un neo-romantico, come ti dichiari?
- Colpevole!

Miki Carone, 2003

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